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Il Cammino di Don Drink: Un Viaggio di Senso e Catarsi

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Approfondimenti sul romanzo di Francesco Garofalo, tra inquietudine, fede e ricerca di sé. A cura del prof. Eugenio Maria Gallo, storico e poeta.

“Forse la vera domanda non è da dove veniamo, ma perché siamo qui adesso”. In questa osservazione, che Franco Garofalo fa pronunciare a don Drink, c’è forse in nuce tutto il romanzo e c’è, altresì, la motivazione che mi fa dire che si tratti d’un romanzo di senso. Ma prima di entrare nelle pagine del religioso agnostico, ho il dovere di ringraziare Franco Garofalo per questo suo lavoro e per avermi voluto coinvolgere. Quando, per la prima volta, mi ha parlato del suo romanzo, mi sono sentito subito preso dalla fabula, attorno alla quale si intreccia e si snoda la narrazione, ma soprattutto mi sono sentito preso dall’entusiasmo del suo narrare, un entusiasmo direi contagioso, tant’è che quando mi ha chiesto di scrivere qualcosa sul suo testo, gli ho detto subito di sì. Presagivo che la lettura del suo romanzo, per me, sarebbe stata gratificante. E così è stato! Piacevole e coinvolgente la sua prosa e interessante e affascinante la storia, una storia profonda e ricca di spunti di meditazione per la dinamica dei temi, dall’amore al peccato, dal tradimento al sesso, dalla vita alla morte, all’oltre, temi affrontati e scandagliati secondo una misura di natura psico- sociologica. A partire dal “vicolo”, quel fascio d’ombra che non è solo un luogo dello spazio e del tempo, ma è anche una condizione paradigmatica dell’anima dell’essere, che nel piccolo Drink si fa peso oppressivo: “In quei vicoli senza nome, la vita – scrive Franco – si agita, ma non di energia vitale. E’ una vitalità cupa, fatta di esistenze disperate (…). Gli uomini si muovono con sguardi torvi e desideri nascosti, mentre le donne, stanche e segnate dal tempo, offrono la loro compagnia a chi cerca un modo per sfuggire ai propri pensieri. (…). Sin da giovane, Drink percepisce il peso opprimente di quell’ambiente, Vive in una comunità in cui l’apparenza è tutto, e chiunque si mostri ‘diverso’ viene emarginato” (Cfr. p. 23). E’ un narratore di spessore Franco Garofalo, un narratore che conosce l’animo umano e sa realizzarlo nei propri personaggi, nei quali egli sa entrare e guardare, agendo da interlocutore profondo e discreto e rivelando una perfetta conoscenza della realtà umana e, nel caso di don Drink, anche una profonda conoscenza delle Sacre Scritture. Quel vicolo, mi piace dire riprendendo il filo del narrare, è più di un’ombra nella psiche di Drink, è un incubo da cui non è facile liberarsi. E Drink è fragile, non è temprato per affrontare l’urto col vicolo; proprio per questo la madre, il padre è sempre assente, lo affida al seminario. Ecco, già in tutto questo si avvertono i segni di un’esistenza che rischia di essere un’esistenza mancata. Binswanger, in un proprio saggio, parlava di tre forme di esistenza mancata, e cioé esaltazione fissata, stramberia e manierismo. Io direi che ce ne sono tante altre e, fra queste, la prima in assoluto è la mancanza di senso nella vita. Guardata da questa ottica, la fuga- rifugio del giovane Drink in Seminario è un po’ un esempio di quanto detto. E allora Franco, nel narrare la vicende di Drink prima e di don Drink dopo, svolge un lavoro di senso, per cui il suo romanzo si fa ricerca di senso, si fa romanzo di senso. Interessanti e toccanti sono, fra le tante, anche le pagine in cui Franco narra del sentimento nutrito da Drink per un compagno seminarista: “Tra momenti di ascolto e riflessione, – egli scrive – si creò un legame profondo con un compagno seminarista, una connessione che, almeno in parte, lo liberava dai traumi e dalle difficoltà che avevano segnato il suo passato. Eppure, nuove catene iniziavano a farsi strada all’orizzonte. Sebbene il suo orientamento sessuale potesse essere vissuto ‘discretamente’ all’interno delle mura del seminario, era proibito esprimerlo all’esterno. La vita comunitaria sacerdotale imponeva il segreto, alimentando un clima di ipocrisia e limitando la possibilità di essere davvero se stessi” (cfr. p, 35). Ecco, l’impossibilità di essere se stesso. E’ forse questo il dramma più profondo per il giovane Drink. Il ragazzo è in gamba e ne dà prova quando, ancora in seminario, si fa sentire con alcuni protagonisti del Convegno dei dotti. Ma anche in seminario, l’ombra lunga di quel vicolo oscuro continua ad opprimerlo. Nei meandri bui di questo vicolo entra Francesco Garofalo con il metro della propria cultura e con la forza di una misura psico- sociologica capace di scandagliare le radici dell’essere e di realizzare un personaggio dalla personalità ben chiara e definita, un personaggio che ha, in sé, l’inquietudine di chi ha sete di senso e di risposte. Ma da cosa nasce, in Drink, il piacere del vino e del fumo? Nomen omen, si potrebbe dire, nel nome il destino. E, a questo punto, il giovane protagonista si imbatte in un’altra relazione. “La sua amicizia con il superiore – scrive Franco Garofalo – divenne un riparo sicuro (…). In quella relazione proibita, Drink trovò non solo piacere, ma anche potere. (…). Tuttavia, quell’evento conviviale segnò un drammatico punto di svolta per Drink. Dopo quella notte di follia e la distanza che si faceva strada dall’affetto del compagno seminarista (…). Fu l’inizio d’un tragico epilogo (…). Si avviò così’ verso una spirale autodistruttiva fatta di alcool e tabacco (…). Tuttavia in questo scenario caotico prese piede in lui l’arte dell’ironia e del sarcasmo” (cfr, pp. 68- 69). Un’ironia direi anche di natura socratica. Nello stesso tempo si fa sempre più strada, in lui, l’agnosticismo, pur senza mettere in discussione l’intento di farsi sacerdote. Il suo viaggio lo sta portando fuori dal vicolo buio? Siamo ancora lontani. Ordinato sacerdote don Drink si avvia per la propria missione, ma non lascia il vino. “Immaginate – scrive Franco Garofalo – una vita senza un buon bicchiere di vino: grigia, monotona, priva di quelle esplosioni di gioia che solo il nettare degli dèi può offrire. (…). Ora, non sto dicendo che dobbiamo annegare nei fiumi di vino (…), ma un sorso qua e là, ragazzi non ha mai fatto male a nessuno. (..). E’ la schiettezza, non la quantità, che apre le porte del paradiso” (cfr. p. 194). Il vino, in lui, è un po’ la metafora della vita, della vita che egli interroga e dalla quale attende risposte. “En oino aletheia”, direbbero gli antichi greci! In vino veritas, ma non la verità intesa come sincerità nel comunicare qualcosa, bensì come vero nel senso più profondo, come senso della vita, come risposta ai dubbi dell’inquietudine. Franco Garofalo sa penetrare l’animo umano, sa avvertirne l’inquietudine e ne sottolinea i moti intimi. Il suo don Don Drink, il “prete agnostico”, che è un po’ il paradigma della crisi e dell’inquietudine dell’uomo d’oggi che ha sete di risposte certe e rassicuranti, è un sacerdote con “una visione culturale della religione” e con una fede che si fa “via” per giungere alla comprensione “di sé e degli altri”. Questo, in fondo, egli cerca sulla via del “pensiero libero” e, solo se ci riuscirà, la sua vita non sarà un’esistenza mancata. Ma il viaggio di don Drink è un cammino di morte o di catarsi? E’ un cammino di ricerca, direi, un cammino di senso. I suoi dubbi e le sue ricerche sul piano delle Scritture, anche se talora affrontate in modo apparentemente dissacrante, sono un tentativo di trovare una risposta e un senso alla propria vita, il tentantivo di comprendere e di comprendersi, di giungere all’autenticità del sé nella propria vita. Il suo viaggio, allora, si fa possibilità di catarsi, in cui fa da galeotta la sua giovane badante. Per essa egli prova, ricambiato, un sincero sentimento d’affetto che si colloca nella misura di “un amore angelico”. Ma una sera, in cui forse ha bevuto tanto più del solito, ritiene di imbattersi nella figura del diavolo, che secondo me non è altro che la proiezione del vicolo buio con le sue angosce e con le sue vessazioni, con le sue paure e con i suoi incubi; allora il suo cammino per dare senso alla propria esistenza è forse giunto sul binario giusto. Dopo quella sera, per don Drink, inizia una nuova vita. Il “prete agnostico” e “dì- vino”, finalmente, ha trovato la propria strada, è entrato nella fede come amore per gli altri e dono divino capace di dare senso alla vita. Ora è fuori dal vicolo buio, non ha più bisogno di scappare e sa di essere in grado di affrontare con serenità ogni demone della vita e ogni angoscioso dubbio, perché finalmente è sé stesso ed é sé stesso perché ha colto il senso della vita. Esistere, nel senso giusto, non è vivere di surrogati, ma di valori, non è essere di… oppure essere con… o essere per sé ma, soprattuto per un religioso, è essere per l’altro. Don Drink, anche grazie al suo “amore angelico”, c’è arrivato, la sua non sarà più un’esistenza mancata. E’ questa la lettura che io ho fatto del romanzo di Franco Garofalo, un romanzo interessante, narrato in un modo brillante e coinvolgente, un romanzo che invita a riflettere, a meditare per rispondere al bisogno di senso dell’uomo d’oggi, di cui don Drink sembra proprio la proiezione, ma anche per fare dell’essere e dell’esserci un uomo e un’esistenza autenticamente realizzati.

Eugenio Maria Gallo