Sapere di non sapere: l’umile virtù dell’ignoranza consapevole
– A cura di Eugenio Maria Gallo –
L’ignoranza non è più una virtù. Sì, proprio così! Ma come può l’ignoranza essere una virtù? Forse chi si trova nella condizione di ignorare qualcosa, di non avere conoscenze e competenze e di non avere cultura vive una condizione di virtù? Per rispondere, bisogna aver contezza d’una realtà fondamentale che riguarda, appunto, il sapere e l’uomo ed il rapporto di quest’ultimo col sapere. Tutti, oggi, per fortuna hanno un rapporto col sapere, tutti hanno un proprio patrimonio, piccolo o grande che sia, di conoscenze. Questo non significa, però, che l’uomo non abbia più bisogno di avviarsi per la via del sapere. L’uomo, infatti, anche quello acculturato al massimo grado, ha ancora bisogno di sapere e di conoscere. Lo scibile, del resto, in toto nessuno lo possiede. E chi è consapevole di questa verità, nonostante il proprio bagaglio culturalre e di saperi, sa pertanto di essere ignorante. Sa di ignorare tante altre cose e, allora, non può non confessare la propria ignoranza e non dirsi consapevole di doversi impegnare con attenzione sulla via del sapere. Sa di doversi aprire agli altri, per dialogare e, quindi, per continuare il proprio cammino di apprendimento, che una vita intera non è sufficiente ad esaurire. Chi è consapevole di ciò e, con tanta dignità, si dispone a confessare la propria ignoranza è un uomo virtuoso, perché sa di non sapere e si impone a prepararsi e ad impegnarsi nella ricerca del sapere. Solo chi sa di essere ignorante sa, perché lavora consapevolmente ed umilmente per apprendere. E proprio in questo senso l’ignoranza consapevole è una virtù ed è una virtù in quanto esprime una condizione di umiltà. “So solo di non sapere”, diceva Socrate. Ma, oggi, c’è ancora spazio e campo per un tale atteggiamento? Certo non mancano persone che hanno fatto e fanno proprio, quotidianamente, questo atteggiamento. Penso agli uomini di scienza, ai grandi intellettuali e anche a tante persone comuni che non disdegnano di studiare e di aggiornarsi. C’era un vecchio amico di famiglia che, anche se in età molto avanzata, aveva sempre, sulla scrivania del proprio studio o sul comodino della propria stanza da letto, l’ultimo saggio filosofico, l’ultimo romanzo valido, l’ultima silloge di poeti di spessore, l’ultimo saggio storico o letterario. Nel complesso, però, moltissime persone che, in gran parte, hanno studiato e studiano, talora, ritenenendo di sapere tutto, discettano e discutono di tutto con la presunzione di poterlo fare e, magari, fin troppo spesso, non fanno altro che ripetere, ed anche male, frasi fatte o idee e concetti espressi da altri, sforzandosi di presentarli, in vari contesti e in vari momenti di discussione e di confronto, nonostante non li abbiano assimilati e capiti adeguatamente. Sì, è un’amara verità. Tanti parlano senza cognizione di causa o, come direbbe qualcuno, “per slogan”. E ciò non avviene solo e semplicemente in compagnia di amici, ma anche in sedi dove si pensa e si dice di fare cultura. Sì, tanti parlano e si parlano addosso, ma si guardano bene dall’ascoltare gli altri, ascoltano solo se stessi. E senza ascolto non c’è apertura, non c’è possibilità di aprirsi al sapere e di arricchirsi. Direi che, nel senso dell’umiltà dell’ascolto e della ricerca del sapere, lo studio abbia in parte fallito il proprio compito e mancato il traguardo. Proprio per questo l’ignoranza non è più una virtù, perché si presume di sapere. Prima di educare alla parola e a parlare, sarebbe oppoortuno, soprattutto oggi, educare all’ascolto e a sentirsi sempre più carenti sulla via del sapere. Solo avertendo le proprie carenze ed ascoltando, l’uomo si può porre, infatti, in quell’atteggiamento di dialogo con gli altri e di impegno da cui nasce la ricerca, che è fonte di sapere. Ascoltare significa lasciarsi sollecitare allo studio, alla ricerca e al dialogo e, quindi, ad apprendere. Ma per ascoltare altri, bisogna riconoscersi ignoranti, altrimenti non si ritiene necessario ascoltare alcun altro all’infuori di sé. Scrivere di queste cose potrebbe sembrare impegnarsi in qualcosa di ozioso, ma non è così. E’ un tentativo di capire e di riflettere sul senso del sapere e del rapporto dell’uomo col sapere. Come, infatti, ci si può incontrare con gli altri se, ricchi della propria presunzione di sapere, gli uomini non ascoltano e non dialogano, ma mirano ad imporre la “verità”, la propria, che presumono di possedere per scienza infusa? “So solo di non sapere”, diceva Socrate. E’ necessario, pertanto, sostituire ad una posizione di presunzione un umile atteggiamento di ignoranza. Beati quelli che, per l’esercizio dell’ironia socratica, arrivano a riconoscere la propria ignoranza, perché proprio loro sono in cammino verso il sapere. Mio padre aveva la laurea della seconda elementare, ma era uomo di sapere perché, conscio della propria ignoranza, ascoltava e ricercava e sapeva far tesoro dell’ascolto e della ricerca. Proprio per questo era fiero della propria ignoranza. Sapeva di non sapere, riconosceva la propria ignoranza e, quindi, cercava di apprendere. E, allora, lasciatemi concludere dicendo che, come lui ieri, anche io, oggi, sono contento della mia ignoranza che, quotidianamente, sperimento e metto alla prova per cercare di sapere!
Eugenio Maria Gallo