Sulle tracce di Padìa: Un viaggio nell’intimità poetica di Francesco Curto
Ho incontrato più volte, nel corso di questi anni, la poesia di Francesco Curto e ne sono rimasto fortemente affascinato. Sì, perché il poeta Curto scrive e canta col cuore, direi per fascinazione! Sono ritornato ai suoi versi, per mezzo di questa antologia, e li ho letti e riletti con piacere, quasi come se fosse la prima volta. E’ un bel viaggio il cammino poetico di Francesco Curto, un viaggio fra i meandri profondi della sua anima di poeta. I suoi “Suoni diversi” si presentano e si propongono un po’ come il ricomporsi dei suoi versi in un unicum, in cui si esprime in nuce, quasi a compendio d’un mondo, l’essenza del suo canto. E sono versi dolci e tristi, ricchi di sentimenti e di emozioni, versi che si offrono, al lettore, come lo specchio di un’anima. E’ l’anima di Francesco Curto uomo e poeta, un’anima che si affaccia e si svolge in questa antologia, un’anima che ha, in sé, la propria visione e la propria percezione del mondo e dell’uomo, e trova altresì, nella poesia, il veicolo profondo, allusivo ed universale del proprio comunicare. E’ un canto universale il suo, un canto in cui l’orizzonte da cui ha guardato per la prima volta al mondo, all’uomo e alla vita (“Padìa era un mucchio di case / e di gente” cfr. Padìa p. 130) si è fatto nell’anima dimensione ineludibile di osservazione e di rapporto col tutto; ed è, altresì, un canto allusivo, per la forza evocativa che ha la sua parola – immagine, in cui si racchiude Padìa (“Padìa era vento di Mucone”, cfr. Padìa p. 130), fino a diventare paradigmatica nella propria forza suggestiva. Sì, Padìa è la misura paradigmatica del cuore e del canto di Francesco Curto, ed il vento del Mucone ne è la fascinosa colonna sonora. Tutto è nato là: “Signu neatu – canta F. Curto nei propri versi in dialetto – mienzu all’erba janca / ‘e chilla part’ ‘e du Munnizzèaru. / ‘E ‘mbaccia si vidìa la Conicèlla / e Muccunu mi cantèava na’ ninna bella” (cfr. p. 176); e là tutto ritorna: “Padìa era insieme dolore / e una festa per tutti. / Ragazzi allegri dentro calzoni / rattoppati / vetri rotti / e mele acerbe rubate alla notte. / (…) / Padìa è un mucchio di case oggi / e più niente” (cfr. Padìa, pp. 130- 132). L’uomo, in fondo, torna sempre là dove la sua vita ha avuto inizio; e tanto più lo fa il poeta che fa del luogo delle proprie origini il faro della propria vita e del mondo. Padìa, allora, è il mondo e nel contrasto passato- presente, che la contraddistingue, si svolge la vita. E, in questa sua essenza, la poesia di F. Curto si fa anche cammino di senso e di ricerca. In quest’ottica, pertanto, vanno viste le tante voci del suo canto, nei sentimenti e nelle emozioni, negli stati d’animo e nelle sensazioni. Tutto, in questa raccolta antologica, si muove nel tenero frangersi del tempo fra le coordinate d’un dolce vento autunnale, in cui insieme col ritorno ai propri cari (soprattutto alla madre), che non ci sono più, si fa strada anche un vago senso di morte. “Anche tu – canta nei versi dedicati a Pino Maradei – partisti dal Sud / con la valigia di cartone / e dentro riposti sogni di riscatto; / alle spalle ti lasciasti il mare / e nella risacca i versi non scritti. / (…) / Dimmi se di là c’è un altra vita / se devo rassegnarmi invece / al buio delle cose fatte di niente. / Dimmi, Pino, se di là c’è Dio / E se i poeti lassù / fanno ancora poesia” (cfr. A Pino Maradei, p. 36). E poi i versi alla madre: “Forse verrò ad evocarti madre, seduto / sotto l’ulivo dirimpetto al fiume / e tu dolce nel volto e di nebbia vestita / senza parole sarai davanti a me muta. / Io ti racconterò le pene del tempo / (…) / In te ritroverò la tenerezza antica / attraversando nei ricordi i giorni / sicuro riposerò sulle tue ginocchia” (cfr. A mia madre, p. 94). E’ un dolce ritorno nelle risonanze classiche il verso di F. Curto, un ritorno di nostalgia e di malinconia, è il riapparire d’un porto sicuro in cui il poeta sembra ritrovare la tenerezza perduta, intrecciando un dialogo, in sé mai interrotto, in un perenne incontro passato- presente. Ed ancora: “Io canto la tua pace / sarà il vento la mia preghiera / e la pioggia il pianto. / (…) / Riposa, madre, per sempre / perché il giorno non potrà più ferirti. / Spezza il mio affanno / con le preghiere e la tua pace / canterò alla sera / squarciando le tenebre della vita” (cfr, Epigrafe, p. 44). Sono versi tenerissimi, in cui nel soffio dolce del vento si svolge l’eco d’una preghiera da cantare “alla sera”, nella pace d’un tramonto sereno, quasi per esorcizzare “le tenebre della vita”. Poi, il senso della morte si fa tangibile sulla propria pelle ed il poeta canta: “Non farlo pesare / questo tempo che stringe / Verrà il tempo / per noi senza tempo. / Sarà come cercare / le cose che non trovi / prima di partire” (cfr. Non farlo pesare, p. 124). Spia il senso della morte in questi versi e lo si coglie nell’invito ad abitare il tempo intensamente, prima che tutto finisca. Ed ancora: “Ti lascio Lorenzo – canta nei versi per il nipotino – un sacco di parole / E una montagna di sogni da realizzare / Ti lascio una terra, l’unica / Stanca di essere sfruttata / Ti lascio però le nuvole e miliardi di stelle / (…) / Ti lascio tutto il tempo di una vita / Che ti regala emozioni e gioie infinite / (…) / Ti lascio un sacco pesante di parole / E una vita da costruire con i tuoi sogni / Ti lascio questi versi sfusi impastati / col vento e il lievito della speranza per il futuro” (cfr. A Lorenzo, pp. 136- 138). Si pensa spesso che la vita sia memoria e, forse in parte lo è, ma è anche attesa, cioè un futuro ancora da scoprire. Il filosofo Bloch sottolinea, infatti, che l’essere dell’uomo è “ciò che non è ancora”, è “noch- nicht- sein”, e quindi ciò che appartiene al futuro. E lo si coglie bene anche in questi versi di F. Curto dedicati a Lorenzo, versi in cui egli, nella misura d’un testamento spirituale, si proietta al futuro, attraverso il nipote, cui consegna le proprie radici e la poesia, la terra ed i sogni, le gioie e le emozioni, che la vita in futuro potrà e saprà riservare. Quanta tenerezza e quanta dolcezza in questi versi, in cui si coglie lo svolgersi di un’anima nella dimensione dell’amore. Un tono mesto accompagna anche gli altri versi, da quelli per la figlia Marta, in cui si dipana il senso segreto delle piccole cose di ogni giorno, alla sua “promessa d’amore”, in cui si coglie il senso della vita nell’evanescenza del tempo, che fa dell’uomo un sogno sempre vivo: “All’alba non cercarmi / sono stato un sogno / fuggito sulle ali / di un gabbiano felice” (cfr. Legami alla ruota, p. 118); dai versi fatti di palpiti e di misteriose e calde sensazioni, in cui per suggestione sembra sciogliersi una risonanza del Prevert (“Ho barattato / notti di luna piena / per i miei occhi tristi/ ho spezzato / arcobaleni / per i tuoi sorrisi / sensuali”, cfr. p. 52) a quelli della catarsi dell’io nell’approdo del cuore al senso della vita: “Sento piegarmi dentro / e perdermi in una preghiera, / ma Dio è uno scoglio / dove naufragare. / Là si riposa il cuore affranto / e ogni vanità svanisce” (cfr. Incertezze, p. 90). Sì, un mesto senso della morte si insinua, spesso, nei versi di questa antologia, ma non è mai un senso della fine di tutto, quanto se mai il senso d’un inizio. Sono bellissimi i versi di Francesco Curto, versi dolci e musicali, emotivamente coinvolgenti e profondi, segno d’una poesia sublime, nel senso di sub- limine, cioé sotto il limite di ciò che è manifesto, per esprimerne allusivamente l’essenza. E’ dolce il suo canto e suggestiva la poetica, che si fonda su una parola evocativa capace di trasferire in immagini le voci profonde dell’anima. La poesia di Francesco Curto, per me, non è una novità, la conosco da tempo; eppure sempre nuovo ed originale è il suo canto, nelle proprie immagini e nella propria musicalità, un canto ricco di fascino che rende sempre più coinvolgente ed interessante la lettura, per quella empatia emotiva in cui si condensa. Eugenio Maria Gallo – Rogliano marzo 2024